Marco Olivieri

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Il manoscritto del principe

Il film è stato appena restaurato e presentato alla Festa del Cinema di Roma 2019. (Leggi qui le notizie)

Il 28 novembre, alla Casa del Cinema di Roma, è in visione proprio Il manoscritto del principe di Roberto Andò, alle 16.30, restauro CN 2019. Dopo il film, incontro moderato da Alberto Crespi con Roberto Andò, Fabio Ferzetti, Salvatore Marcarelli, Giuseppe Tornatore.
 http://www.fondazionecsc.it/news.jsp…

J. Moreau e M. Bouquet in una fotografia di Lia Pasqualino

 

Di seguito un’analisi tratta dal libro La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò (Edizioni Kaplan, 2013 e 2017) di Marco Olivieri.

 

Il manoscritto del principe

Un maestro clandestino e i suoi due allievi

M. Bouquet in una fotografia di Lia Pasqualino.

Incipit.

Bianco e nero. In dissolvenza, antiche bellezze corrose dal tempo. Affreschi, statue e palazzi, muri scrostati, immagini che mantengono un loro fascino elegante ma che soccombono, lentamente, di fronte alla forza inesorabile della decadenza.

La macchina da presa inquadra un 33 giri in vinile che gira. Stacco.

Uno sguardo sui tetti della città di Roma. Zoom all’indietro, sostenuto da una musica sospesa, con l’ouverture del Tristano wagneriano, alla scoperta di un’abitazione.

La cinepresa esplora gradualmente, come in un labirinto, tre stanze aperte, un grande quadro seicentesco, uno spazio ampio ricco di libri e cultura, volumi pregiati, una scrivania, un antico comò e, infine, un uomo al pianoforte, che accompagna la musica del 33 giri e tenta fino all’ultimo di non ascoltare un telefono che squilla: la voce di un amico/rivale, lo scopriremo in seguito, che non vuole udire.

Anche questa può essere una metafora della memoria.

Ricordare è faticoso e, a volte, è necessario erigere muri fra sé e gli altri, fra sé stessi e il passato.

Epilogo.

Gli amici di un tempo, di una vita precedente, si salutano a distanza.

Un analogo saluto – un cenno delle mani, con un braccio lievemente alzato – era avvenuto tanti anni prima, nel palazzo del maestro, con un lungo ed elegante corridoio a sancire la distanza, in un giorno speciale: un Capodanno ricco di attese, nonostante l’inevitabile crepuscolo del principe.

L’uomo è di nuovo al pianoforte. Mentre suona, chiude gli occhi, ispirato.

La macchina da presa procede in avanti e attraversa lo spazio fino a fermarsi su una fotografia appoggiata sulla libreria: un uomo anziano, al centro, affiancato da due giovani. L’anziano, con un sorriso lontano, cinge affettuosamente la spalla di uno dei due, anche lui sorridente. L’altro giovane sembra quasi fuori posto. Non sorride e guarda fisso, dentro gli occhiali, e serio, qualcosa che rimane nascosto.

Con questa immagine si conclude il film.

P. Briguglia, M. Bouquet e G. Lupano in una fotografia di Lia Pasqualino: un triangolo psicologico.

Scrive Roberto Andò:

Sono nato e cresciuto in una città morta. Posso dire questa enormità perché una città – Palermo, ad esempio – ha comunque una sua possibilità di rimanere quello per cui è nata, cioè una dimora, anche quando fisicamente le cose che la compongono – le case, le strade, l’eco monumentale del suo passato, il bilancio tra ciò che potrebbe perdersi e il bagliore del futuro – si sbriciolano come le ossa, la calce, il gesso[1].

Possiamo collegare queste parole evocative, e prima ancora lo sguardo amaramente poetico su una città di fantasmi in Diario senza date, alla fuga di immagini in dissolvenza che ritrae dettagli e scorci di vari palazzi palermitani nei titoli di testa del film Il manoscritto del principe,tra i fasti del passato e il senso di decadenza che pervade l’intera pellicola, in un bianco e nero iniziale che lascia il posto alla fotografia a colori di Enrico Lucidi, attenta alle zone d’ombra dell’esistenza.

Come si intuisce sin dalle prime sequenze, che ricostruiscono l’atmosfera e il respiro profondo del film, la storia racconta, attraverso il flashback iniziale, un’esperienza decisiva per la formazione esistenziale e culturale di due giovani molto diversi tra loro per classe di provenienza e propensioni: il rapporto di Marco Pace e Guido Lanza – nella realtà rispettivamente Francesco Orlando e Gioacchino Lanza Tomasi[2] – con il principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa, negli ultimi quattro anni della sua vita, dal 1953 al 1957, a Palermo. Anni nei quali il principe viveva come un clandestino (afferma la voce off di Lanza, per sottolinearne l’alterità) e stava scrivendo quello che sarebbe divenuto Il gattopardo. Romanzo che nel film si intravede nella forma del manoscritto, prima che il libro (dopo la morte del suo autore) diventasse un successo internazionale e un classico della letteratura[3].

Per il regista, i testi di Orlando (del quale viene estremizzato, nei panni di Pace, l’aspetto piccolo-borghese) e Lanza Tomasi (accentuando i suoi aspetti dandy) contengono il germe narrativo di un film[4] che si assume la responsabilità, come ogni finzione che si rispetti, di fantasticare su personaggi veri[5]

Nel cinema di Andò la memoria[6] riveste un ruolo centrale. Sostenuto dalle delicate ed evocative musiche di Marco Betta, con attenzione sottile ai dettagli e alle passioni inespresse, vera e propria cifra emotiva e stilistica del film, Il manoscritto del principe racconta quanto la memoria possa costituire una condanna, un tormento, per Marco Pace, quando Guido Lanza lo cerca dopo tanti anni. Entrambi sono ormai sessantenni e, complice l’iniziativa di Guido, riaffiora il ricordo di Marco del primo incontro con il principe Tomasi di Lampedusa, con l’avvio di un rapporto ambivalente, di odio e amore, tra il maestro e l’allievo. Il rivale, quello che diventerà il figlio adottivo del principe, appare affine, per classe sociale ed educazione, al principe. Tuttavia, Lanza risulta distante culturalmente da Lampedusa e più superficiale rispetto al borghese e letterato Pace, preda di una sofferenza interiore che si esplicita nelle espressioni soffocate, nei piccoli gesti e nell’incertezza dell’agire.

Laurent Terzieff in una fotografia di Lia Pasqualino.

A sua volta, il principe incarna il senso di decadenza di chi, al crepuscolo della propria vita, si nutre delle passioni e dell’entusiasmo dei due giovani allievi. Egli trasmette loro il proprio patrimonio inestimabile di cultura e conoscenza in un triangolo sentimentale che presenta anche sfumature omosessuali. Il film gioca espressivamente sul non detto, sulla reticenza tipicamente siciliana e la dissimulazione dei sentimenti attraverso un codice magro, secondo la definizione di Tomasi di Lampedusa. La verità degli affetti non è mai detta ma sempre colta tramite gesti e grida represse. L’aristocrazia, arrivata alla fine della sua gloriosa storia, in una Palermo che tende a dimenticare, non può che rassegnarsi, come il principe, a vendere i propri beni. L’unica eredità ragionevole, davvero universale, è quella letteraria, e non quella dei palazzi destinati a morire e dei beni ormai perduti.

Così acquistano un particolare significato i segni di antica bellezza, le rovine, i resti, che in dissolvenza campeggiano nei titoli di testa, in una Palermo mai oleografica. Il principe che cammina fiero e da solo, con il bastone, nella sua città, una realtà che stenta a riconoscere e nella quale rimangono solo tracce dello splendore di un tempo, è come un reduce da una guerra o da un mondo che non esiste più. Un sopravvissuto.

R. Andò e J. Moreau in una fotografia di Lia Pasqualino

Nel film assistiamo a una continua evocazione del fasto passato in contrapposizione a un oggi segnato dalla decadenza economica della classe aristocratica. Una crisi quasi sempre (con qualche cedimento) negata dalle parole del principe – interpretato con finezza introspettiva da Michel Bouquet – e dalla sua consorte, la principessa Alessandra Wolf[7], chiamata dal marito Licy, di origine baltica e figura chiave per l’approdo della psicoanalisi a Palermo, impersonata da un’attrice simbolo del cinema d’autore come Jeanne Moreau.

(…) Il ricordo dei tre, bloccato in un’immagine, in un giorno lontano, e perduto, sancisce la fine della storia, in un film elegantemente crepuscolare e denso di toccanti chiaroscuri. La macchina da presa sembra custodire lo stesso pudore degli affetti dei protagonisti. Ad esempio, quando osserva a distanza la scena nella sequenza del cimitero. In altri momenti, si concentra sull’articolazione del punto di vista dei singoli personaggi, con un uso del montaggio volto ad esaltare singole sfumature.

Il racconto, mai piegato a un ordine narrativo funzionale all’azione, allude insistentemente alle rovine della memoria per illuminare le latenze che muovono i singoli destini. Il cineasta va alla ricerca di un tempo ritrovato, consapevole che un’opera proustiana ha bisogno di solide fondamenta fatte di letteratura, poesia, cinema, arte, ma anche sguardo psicoanalitico e sottili sfumature sentimentali, con riferimenti una realtà interiore, intrapsichica, che mai si potrà rivelare in tutta la sua compiutezza. Il viaggio è segreto, alla ricerca di quell’attimo prezioso chiamato ricordo, e nemmeno l’amore per la letteratura, tesoro eterno e più grande di ogni meschinità o debolezza, può mitigare il peso del conflitto. La forza distruttiva delle emozioni e dei sentimenti, che attraversa maestro e allievo, supera ogni sapienza.

 

J. Moreau in una fotografia di Lia Pasqualino.

Il disfacimento è profondamente interiorizzato nei loro gesti misurati e nella tristezza dei loro sguardi, mitigati solo dall’ironia di Lampedusa. Tuttavia, per non aggravare il malessere del marito, è la stessa Wolf a ridimensionare il problema economico, sapendo quanto sia pesante per il principe, costretto a vendere i cimeli di famiglia al banco dei pegni, accettare le asprezze del presente.

Marco Pace da giovane è Paolo Briguglia, il quale incarna con verità interpretativa il volto acerbo e il passo goffo di chi vive un disagio profondo e, all’età di sessant’anni, un lacerato Laurent Terzieff. I suoi silenzi e la sua dolente espressività ci ricordano che la memoria è fonte di rancori e incomprensioni. I tentativi di incontrare Marco, dopo tanti anni, da parte di Guido Lanza (ruolo interpretato da giovane da Giorgio Lupano, strafottente e superficiale, e da sessantenne da Massimo De Francovich, che fa intuire la maturazione del personaggio), riattivano la ferita, il dolore del ricordo. Un rapporto conflittuale con il maestro reso ancora più drammatico dal silenzio, dall’assenza di un giudizio, da parte di Tomasi di Lampedusa – il quale, come Stendhal, per tutta la vita aveva forse voluto la stessa cosa: «realizzare un capolavoro» – sul romanzo scritto dal giovane.

Roberto Andò valorizza un personaggio imponente come Lampedusa senza soccombere di fronte a un romanzo, Il gattopardo, così impegnativo per le riflessioni sollecitate sulla Sicilia, e ricostruisce con finezza un triangolo letterario ed esistenziale, persino amoroso nelle sue pieghe meno esplicite, inserendo una nota dolce e amara al tempo stesso. Qui il ricordo appare segnato dalla tristezza e dalla malinconia, senza cedere alla retorica, e trovando una cifra stilistica autonoma rispetto al suo produttore, Giuseppe Tornatore. La regia riesce a valorizzare l’azione cinematografica, nonostante la forza letteraria del personaggio centrale, facendo sì che la parola si armonizzi con la dinamicità del linguaggio cinematografico. Domina una riflessione originale sul tema del talento, tra competizione, veti e silenzi omissivi – con la letteratura, la musica e, in maniera sotterranea, gli affetti come terreni di battaglia – grazie a un’indagine appassionante su una Sicilia intellettuale sequestrata dalla superbia e dall’autocensura.

Un altro tema centrale del Manoscritto del principe è la psicoanalisi[8], già presente in Diario senza date e fondamentale in Viaggio segreto. Qui è vista di sottecchi, quando il principe sbircia nella stanza dei segreti, quella della moglie psicoanalista in ascolto dei suoi pazienti. Il principe guarda con pudore, si ferma sulla soglia, e si porta dietro una consapevolezza forse di matrice psicoanalitica quando afferma la verità del corpo, dell’azione, del gesto inconsapevole rispetto alle parole, anche quelle bellissime e affascinanti della letteratura, nella sequenza chiave del confronto/scontro con l’allievo Marco Pace.

Così come sono ricche di rimandi psicoanalitici le due case principali del film, due veri e propri spazi della mente: quella di Tomasi di Lampedusa (palazzo Mazzarino di Palermo come set), densa di echi del glorioso passato, e l’abitazione romana (dominante nelle sequenze iniziali e finali) di Marco Pace, simbolo di una memoria culturale, tra pianoforte e rimandi letterari, che sembra risentire di quella stessa polverosa decadenza che, da giovane, l’allievo aveva respirato nella dimora del maestro.

Tra Pinter e Sciascia

 

L’idea dello scrittore come plagiatore, che si impadronisce delle vite altrui, caratterizzerà il film successivo, Sotto falso nome. Nel Manoscritto domina la consapevolezza tragica che neanche la letteratura può risarcire di fronte alla drammatica equivocità dei rapporti che segna i personaggi e alla distruttività che pervade questo mondo. In questo contesto di rapporti postumi, destinati a rimanere irrisolti, un punto di riferimento è la scrittura di Harold Pinter, con la sua rivelazione di quanto la memoria sia devastante e non consolatoria. Il regista si ispira al Pinter drammaturgo di Vecchi tempi e di Betrayal (Tradimenti, 1978) ma anche allo sceneggiatore di cinema della Recherche, per il film che Losey avrebbe dovuto dirigere. Non a caso, nel documentario di Andò sullo scrittore e drammaturgo, mentre Pinter rievoca il suo passato, la macchina da presa inquadra la copertina della sceneggiatura tratta da Proust, Remembrance of Thing Past.

Quanto ai modelli cinematografici del Manoscritto, si possono citare film come La Belle Noiseuse (La bella scontrosa, Jacques Rivette, 1991) nella sua versione integrale, Tous les matins du monde (Tutte le mattine del mondo, Alain Corneau, 1991), Un Cœur en Hiver (Un cuore in inverno, Claude Sautet, 1992) – con Daniel Auteuil, protagonista poi di Sotto falso nome – e Nelly et Monsieur Arnaud (Nelly e Mr. Arnaud, Claude Sautet, 1995). Sia in Rivette, sia in Sautet, l’intreccio si poggia su un patto tra un anziano e un giovane.

In una fase precedente alla realizzazione del film, nel 1998, a commentare la sceneggiatura è stato proprio Claude Sautet, nelle vesti di consigliere. Un regista apprezzato da Andò per la sua capacità di favorire «l’incontro di due nemici come la letteratura e il cinema», tra narrazione cinematografica classica e tendenza settecentesca a esplorare «le zone più riservate dell’anima».

Dalla scrittura all’esperienza sul set, Roberto Andò è grato a Michel Bouquet per la sua dedizione nel diventare Lampedusa. Un clandestino nel mondo del cinema, capace di imparare a memoria tutto il copione e di lavorare due anni con il regista sulla sceneggiatura. A sua volta, Jeanne Moreau ha arricchito il suo personaggio di una sensualità ammaliante, tra pochi sguardi e morbidezze, in una storia nella quale il sesso è uno dei temi inconfessati. Anche con lei il rapporto è stato intensissimo, mettendo in gioco un sentimento al tempo stesso «dolcissimo e furioso, l’evocazione più vicina alla vita», suggerisce l’autore, mentre Terzieff spicca per la sua interpretazione densa di sguardi e silenzi dolorosissimi.

Il manoscritto del principe ha ricevuto unanimi consensi dalla critica e apprezzamenti anche da parte di esponenti significativi del cinema e della cultura, compresi i diretti interessati. Appena uscito il film, un entusiasta Andrea Camilleri ne ha lodato «l’eleganza, la discrezione, il pudore» e il coraggio nel rifiutare ogni concessione spettacolare.

Senza l’incontro da giovanissimo con Leonardo Sciascia, il rapporto fra il maestro e gli allievi non sarebbe stato così ricco di sfumature. È lo scrittore ad avere insegnato ad Andò che in Sicilia «la scrittura è innanzitutto delazione», con «il risentimento ferito, foriero di vendetta, rivolto a chi rivela ciò che deve rimanere taciuto». Un’accusa che accomuna Sciascia e Tomasi di Lampedusa: gli scrittori più significativi per l’identità siciliana sono macchiati da un’inappartenza rispetto al proprio ambiente e considerati alla stregua di traditori. Così sarà per Il gattopardo e per Le parrocchie di Regalpetra.

Non appartenenza che costituisce un elemento tematico centrale. La scrittura e il cinema rappresentano un’occasione preziosa per denunciare in chiave artistica il vuoto e l’orrore, la Sicilia assuefatta all’omertà mafiosa (da qui la delazione contro il silenzio che gli ingiusti vorrebbero imporre) e il degrado antropologico della nazione italiana. Così si esprime l’autore su Palermo: «Pure quando ci vivevo, mai mi sono sentito stabile e residente in questa città, come se ogni giorno dovessi lasciarla, volessi andare via». Forse era semplicemente questo che voleva raccontare: «La paura di non appartenere più a un luogo».

Leopoldo Trieste e Roberto Andò in una fotografia di Lia Pasqualino.

(…)

Un’altra figura fondamentale è quella del poeta Lucio Piccolo, cugino di Tomasi di Lampedusa, nel film interpretato da Leopoldo Trieste. L’attore è straordinariamente verosimile per adesione interpretativa, in un impasto indovinato di tragico e buffo. Per il cineasta, il mondo dei Piccolo esprimeva la più assoluta refrattarietà alla cura e l’estrema resistenza aristocratica all’interpretazione della psiche. Come psicoanalista freudiana, nella Palermo degli anni Cinquanta, la principessa Licy compie infatti un tradimento di classe, introducendo un elemento di rottura sociale. Al pari dell’alterità letteraria di Lampedusa, anche lei è un’intrusa.

(….) Piccolo incarna qui un poeta di viaggi sospesi tra il sonno e la veglia per salvare qualcosa da un disastro che forse è già avvenuto ma che potrebbe replicarsi ancora più terribile nelle sue conseguenze. Nel suo gioco a nascondere si cela l’amore primigenio del regista per tutto ciò che è evocativo. Suggestioni, ombre, sogni e misteri da trasformare in cinema.

 


 

[1]              Roberto Andò, Diario senza date o della delazione, Gea Schirò Editore, Palermo, 2008, p. 11.

[2] Il film è liberamente ispirato ai seguenti testi: Gioacchino Lanza Tomasi, Palermo, anni Cinquanta, premessa a Lezioni di letteratura inglese, in Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Opere, Mondadori, Milano, 1995; Francesco Orlando, Ricordo di Lampedusa, Scheiweiller, Milano, 1962; Id., Ricordo di Lampedusa seguito da Da distanze diverse, Bollati Boringhieri, Torino, 1996. 

[3] Su una nuova lettura del romanzo si veda: Silvano Nigro, Il Principe fulvo, Sellerio, Palermo, 2012.

[4]     Roberto Andò, Salvatore Marcarelli, Il manoscritto del principe, Edizioni della Battaglia, Palermo, 2001; Idd., Il manoscritto del principe, Sceneggiatura originaria dell’omonimo film di Roberto Andò, Fotografie di Lia Pasqualino, Comune di Mantova – Assessorato alla Cultura, Circolo del Cinema e Provincia di Mantova – Casa del Mantegna, Mantova, 2008. Il primo libro contiene una versione della sceneggiatura più aderente alla realizzazione finale rispetto alla stesura presente nel secondo volume. In entrambi i libri si trovano la prefazione di Dacia Maraini e le note introduttive di Francesco Rosi e Suso Cecchi d’Amico.

[5] A proposito di un tale modo compositivo di procedere, il regista interviene in Roberto Andò, Salvatore Marcarelli, Il manoscritto del principe, Comune di Mantova – Assessorato alla Cultura, Circolo del Cinema e Provincia di Mantova – Casa del Mantegna, cit., pp. 9-10.

[6] Sul tema imponente cinema e memoria, solo alcuni segnali bibliografici: Andrej Tarkoskij, Zapečatlënnoe vremja, 1986 (tr. it. Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano, 1988); Gilles Deleuze, Cinéma 2, L’image-temps, Les Editions de Minuit, Paris, 1985 (tr. it. L’immagine tempo,vol. 2, Ubulibri, Milano, 1989); Millicent Marcus, Italian Film in the Shadow of Auschwitz, University of Toronto Press, Canada, 2007; Anna Masecchia, Al cinema con Proust, Marsilio, Venezia, 2008. Inoltre, sul tema controverso della memoria, tra letteratura e storia, cfr. Alessandro Piperno, Proust antiebreo, Franco Angeli, Milano, 2000; Id., Contro la memoria, Fandango Libri, Roma, 2012.

[7] Alessandra Wolf Stomersee di Lampedusa (Nizza 1894 – Palermo 1982) viene ricordata da Francesco Corrao, che iniziò il suo tirocinio da analista con la principessa, in Roberto Andò, Il maestro e i porcospini, Quaderni Edizioni della Battaglia, Palermo, 1994, pp. 7-14.

[8] Per il rapporto tra cinema e psicoanalisi cfr. tra gli altri: Simona Argentieri, Alvise Sapori, Freud a Hollywood, Nuova ERI, Torino, 1988; Slavoj Žižek, Tout ce que vous avez toujours voulu savoir sur Lacan sans jamais oser le demander a Hitchcock, Navarin, Marsat, 1988; Id., Dello sguardo e altri oggetti. Saggi su cinema e psicoanalisi, Damiano Cantone, Lorenzo Chiesa (a cura di), Campanotto editore, Pasian di Prato (Udine), 2004; Salvatore Cesario, La psicoanalisi e Hitchcock: che cosa la psicoanalisi può imparare da Hitchcock, Franco Angeli, Milano, 1996; Cesare Musatti. Scritti sul cinema, Dario F. Romano (a cura di), Testo & Immagine, Torino, 2000; Christian Metz, Le signifiant imaginaire: psychanalyse et cinéma, Union générale d’éditions, Paris, 1977 (trad. it. Cinema e psicanalisi, Marsilio, Venezia, 2002); Lucilla Albano, Lo schermo dei sogni. Chiavi psicoanalitiche del cinema, Marsilio, Venezia, 2004; Lucilla Albano, Veronica Pravadelli (a cura di), Cinema e psicoanalisi. Tra cinema classico e nuove tecnologie, Quodlibet, Macerata 2008; Rosamaria Salvatore, La distanza amorosa. Il cinema interroga la psicoanalisi, Quodlibet Studio, Macerata, 2011.

Dal libro La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò (Edizioni Kaplan, 2013 e 2017) di Marco Olivieri. Sul film, nel volume, pp. 31-54.

Giornalista professionista e dottore di ricerca, Marco Olivieri, oltre che autore della monografia “La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò” (Edizioni Kaplan 2013 e 2017, anche ebook), è curatore del volume “Le confessioni” (Skira 2016) e, con Anna Paparcone, autore del libro “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” (Rubbettino 2017). Collabora con «la Repubblica» – edizione di Palermo, è direttore responsabile del sito http://www.carteggiletterari.it e componente del comitato scientifico di “Carteggi letterari le edizioni”. Ha scritto saggi per la casa editrice Leo S. Olschki e articoli per «Cinema e Storia» di Rubbettino, «il venerdì di Repubblica», «Ciak», «Doppiozero».

 

Immagine in evidenza: Michel Bouquet in una fotografia di Lia Pasqualino.

Ri-scossa di Dario Indelicato: un docufilm sulla storia di Gibellina

“In Ri-scossa, domina la forza suggestiva della parola e della visione, con attenzione ai dettagli, tra reperti e indagine sul presente, rievocazione appassionata, emozioni e nostalgie per una centralità dell’arte e della rielaborazione storica così lontana dal pensiero dominante. La regia e il montaggio del siciliano Dario Indelicato guidano lo spettatore in questo viaggio realistico e poetico al tempo stesso. Tra storia, politica, società, cultura, con personalità come Sciascia, Dolci, Guttuso, Corrao, e oggi Andò, come argini per contrastare l’incuria e l’abbandono, e con tanti testimoni di un mondo da ricordare per alimentare il valore della memoria e di una possibile ricostruzione, etica e artistica”. (Marco Olivieri)

Leggi l’articolo su Carteggi Letterari

Il cinema di Marco Tullio Giordana: intervista sul libro a cura di Daniela Sessa

 

Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema
di Daniela Sessa, del 13 luglio 2018

Fare cinema, fare letteratura.
Intervista a Marco Olivieri sul libro Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema di Marco Olivieri e Anna Paparcone (Rubbettino, 2017)

Marco Olivieri scrive di cinema, quello cosiddetto d’impegno civile e, se è concesso, anche estetico. Di Roberto Andò il cui cinema incarna il mistero di esistenze e di memorie risolte da una macchina da presa raffinata e suggestiva. Di Marco Tullio Giordana che ritrae “Pezzi di storia densi di ambiguità e dal fascino perverso, spesso rimossi da una realtà nazionale che tende a rifiutare ciò che appare sgradevole o non pacificato”. Un giudizio, questo, su “Sangue pazzo” da estendere a tutta la concezione della scrittura e della regia di Giordana. Marco Olivieri ha pubblicato un libro sul cinema di Roberto Andò, “La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò” ora in ristampa per Kaplan, ed è in libreria con “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” (Rubbettino), scritto con Anna Paparcone della Bucknell University negli Stati Uniti (ha scritto saggi anche su Pasolini, Garrone, Pif e Quatriglio) e con i suggerimenti di Christian Uva, direttore della Collana Cinema di Rubbettino.
Leggi l’intervista su Letteratitudine.blog

La stessa intervista sul sito di Rubbettino

Il libro sul cinema di Andò: recensione e intervista a cura di Chiara Ricci

 

 

Si occupa di Cultura nel senso più ampio del termine con particolare attenzione al mondo cinematografico. Come nasce questo suo interesse?

“Per rispondere, parto da una citazione: «C’è una parola che mi è particolarmente cara: passione. La passione è la parola-chiave… non solo per la politica, anche per la vita». Sono le parole di un leader politico, interpretato da Toni Servillo nel film Viva la libertà di Roberto Andò, che rivitalizza il popolo rassegnato della Sinistra italiana recitando la poesia A chi esita di Bertolt Brecht. Sono parole che sento profondamente mie. Passione per il cinema, per la letteratura, per ogni forma artistica legata alla scrittura e alla visione. Una passione nata quando facevo tardi la sera per seguire su Rai 3 le rassegne dedicate al regista Max Ophüls e coltivata da ventenne scrivendo recensioni cinematografiche, per poi concentrarmi sul giornalismo culturale, sull’attività di ufficio stampa e in precedenza su un dottorato di ricerca”.

Leggi l’intervista con Chiara Ricci e la recensione

Di seguito alcune presentazioni del libro del 2013.

 

I nuovi film dopo Venezia

Archiviata la Mostra del Cinema di Venezia, nuovi film approdano nelle sale. Nel frattempo, le tensioni che contrappongono i gestori e Netflix rispecchiano le incertezze dei tempi, fra dilagare di serie tv e una preminenza del tempio cinematografico che sembra perduta.

In momenti così inquieti, e non solo in campo artistico, il regista Roberto Andò celebra il cinema e lo ricolloca al centro di un incalzante, e profondo dietro la leggerezza, gioco narrativo. Con il suo settimo film, “Una storia senza nome”, fuori concorso a Venezia, protagonista Micaela Ramazzotti, è il linguaggio filmico a fare il verso alla vita e alle sue doppiezze, esplorando con ironia la contemporaneità e le sue illusioni. Leggi l’articolo su Outsider News

Il cinema di Roberto Andò: presentazione a Siracusa del libro di Marco Olivieri

La Casa del Libro “Rosario Mascali” di Siracusa, in collaborazione con l’associazione Amici Casa del Libro, invita alla presentazione del volume di Marco Olivieri, La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò, Edizioni Kaplan (2013 e 2017, anche ebook). L’appuntamento è martedì 5 giugno, ore 18.30, in via Maestranza n. 20. Daniela Sessa modera l’incontro. Interverranno Roberto Andò e Marco Olivieri.

Questa prima monografia dedicata al cinema di Roberto Andò illustra la peculiarità di un autore rigoroso che nei suoi film, da Diario senza date (1995) a Viva la libertà (2013) e Le confessioni (2016), ha costruito un percorso coerente e originale mettendo in scena la “memoria degli altri”, un intreccio appassionante di destini individuali e collettivi. Il libro contiene, oltre alle analisi dei singoli film, un’intervista con lo stesso regista, che ripercorre le tappe della sua vita e della sua carriera, e le fotografie di Lia Pasqualino.

Giornalista e dottore di ricerca, Marco Olivieri è il curatore del volume Le confessioni (Skira 2016) e, con Anna Paparcone, è autore del libro Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema (Rubbettino 2017).

Scrive Olivieri: “C’è sempre un viaggio in una casa della memoria nel cinema di Roberto Andò. Un viaggio in una città condannata a dimenticare e un bambino che fruga nelle stanze del passato in Diario senza date. Un viaggio in un mondo glorioso e ormai decaduto, con la letteratura unica ancora di salvezza dalle macerie, nel film Il manoscritto del principe. Una visita in una casa abbandonata e lontana, fallito il tentativo di fuggire dai propri misfatti, in Sotto falso nome. Il ritorno alla villa dell’infanzia, tra palme e oleandri e il mare come prospettiva, antico teatro di un evento traumatico, in Viaggio segreto. La ricerca di se stessi, tra le ambiguità del doppio e i labirinti della mente, in Viva la libertà. Nel successivo Le confessioni, un ospite speciale, un estraneo, giunge nel cuore di un’economia e di una politica senz’anima, senza passato e senza futuro, e scompagina i piani prestabiliti. Ridà un senso, come un narratore, al corso del cose. Sono viaggi nella memoria, tra tentazione dell’oblio e svelamento di una verità che può annientare”.

Di conseguenza, per l’autore, “il cinema, la letteratura, il teatro, la musica, la poesia, l’eros, la psicoanalisi, l’interrogazione filosofica sull’essere, il tormento interiore che nutre l’artista e gli esseri umani. Ė questo il mondo, tra elementi sotterranei e poetiche implicite, che alimenta l’immaginario del regista Roberto Andò”. L’obiettivo è dare il giusto risalto a un cineasta tra i più significativi degli ultimi anni. Nell’analisi dei suoi film, lo sguardo cinematografico sull’essere umano s’interseca con gli echi della storia e della memoria collettiva per sviscerare la realtà in ogni sfumatura, specie se rimossa o dimenticata, inattesa o nascosta.

In occasione della prima edizione, così si era pronunciato Marco Tullio Giordana: “Consiglio di leggere questo libro perché è una bellissima lettura che ti trasmette una grandissima voglia di fare, di capire tutti gli elementi che caratterizzano la poetica di Roberto Andò e i suoi tantissimi riferimenti culturali”. A sua volta, per Mario Calderale, critico di Segnocinema, “La memoria degli altri si discosta dalle monografie consuete sui registi instaurando un rapporto empatico col lettore”.

 

Link utili: http://www.edizionikaplan.com/; http://www.edizionikaplan.com/book.php?id=133; https://marcoolivierigiornalista.wordpress.com/.

 

 

Workshop sul cinema di Roberto Andò, un labirinto di memorie e segreti

26 Aprile 2018
Ore 16:30
Villafranca Tirrena, Centro di Aggregazione Giovanile “Fabrizio Ripa”
Il giornalista e dottore di ricerca Marco Olivieri, dialogando con il produttore e sceneggiatore Francesco Torre, presenterà il suo volume “La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò” (Edizioni Kaplan, 2013 e 2017) attraverso il quale illustra la peculiarità di un autore rigoroso che nei suoi film, da Diario senza date (1995) a Viva la libertà (2013) e Le confessioni (2016), ha costruito un percorso coerente e originale mettendo in scena la “memoria degli altri”, un intreccio appassionante di destini individuali e collettivi. Il libro contiene, oltre alle analisi dei singoli film, un intervento dello stesso regista che ripercorre le tappe della sua vita e della sua carriera e le fotografie di Lia Pasqualino.
Marco Olivieri, critico cinematografico, collabora con «La Repubblica» – edizione di Palermo, ha scritto per «Cinema e Storia 2016», «Ciak» e «Doppiozero», e ha curato il volume “Le confessioni” (Skira 2016) e, con Anna Paparcone, è autore del libro “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” (Rubbettino 2017). In occasione della prima edizione del volume dedicato al cinema di Andò, proprio Marco Tullio Giordana ha parlato del libro come di “una bellissima lettura che ti trasmette una grandissima voglia di capire tutti gli elementi che caratterizzano la poetica di Roberto Andò e i suoi tantissimi riferimenti culturali”.

I miei interventi all’Indiana University

20 e 21 aprile,  il critico cinematografico messinese Marco Olivieri interviene sul cinema di R. Andò e M.T. Giordana all’Indiana University

In uscita due libri del giornalista: per Kaplan La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò (edizione aggiornata) e per Rubbettino, con Anna Paparcone, Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema

 

In occasione dell’annuale Conferenza sul cinema italiano dell’Indiana University (19-22 aprile 2017), promossa dal professore Antonio Carlo Vitti, il giornalista e critico cinematografico messinese Marco Olivieri presenta in un simposio il cinema di Roberto Andò, ospite d’onore dell’ottava edizione. “The Eighth Annual Film Symposium on New Trends in Modern and Contemporary Italian Cinema features the work of filmmaker Roberto Andò” è il titolo della Conferenza.

In primo piano, giovedì 20 aprile, un intervento di Olivieri sul tema “Dal Manoscritto a Le confessioni: memoria e segreto nel cinema di Roberto Andò”. Inoltre, il giornalista parteciperà a una tavola rotonda sul cinema di Marco Tullio Giordana, venerdì 21 aprile, promossa dalla docente Anna Paparcone (Bucknell University) e con Fulvio Orsitto (University of California, Chico) e Gloria Pastorino (Farleigh Dickinson University).

Già curatore del volume per Skira “Le confessioni” (sceneggiatura di R. Andò e Angelo Pasquini, fotografie di Lia Pasqualino, 2016), Olivieri è autore di due libri: rispettivamente, per Edizioni Kaplan, “La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò” (2013 ed edizione aggiornata 2017); e, scritto da lui e da Anna Paparcone, “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” (Rubbettino 2017). I due autori – con il regista, il direttore editoriale di Rubbettino Luigi Franco e il direttore della collana di Cinema Christian Uva (Università Roma Tre) – presenteranno il volume  sul cinema di M.T. Giordana al Salone Internazionale del Libro di Torino il 21 maggio, alle 14.30, nello Spazio Incontri.

Giornalista professionista e dottore di ricerca, Marco Olivieri si occupa di cultura e spettacoli, cinema e letteratura, uffici stampa e direzioni artistiche, società e politica. È intervenuto in numerose conferenze in Italia, dal Museo Nazionale del Cinema di Torino (Bibliomediateca “Mario Gromo”) alle Università di Padova e Iulm di Milano, e all’estero (Yale University), con lezioni e interventi e presentazioni dei libri.

 

http://www.cinema.indiana.edu/?post_type=series&p=13974

I nuovi libri su Andò e Giordana: le presentazioni in Indiana e a Torino

Oltre all’edizione aggiornata del mio volume per Kaplan, “La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò” (Kaplan 2013 e 2017), nell’aprile 2017 sarà pubblicato un nuovo libro, per Rubbettino, scritto da me e da Anna Paparcone (Bucknell University): “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” (Rubbettino 2017).

Saranno diverse le occasioni per parlarne. Dal 19 al 22 aprile 2017, all’annuale Conferenza sul cinema italiano dell’Indiana University, promossa dal professore Antonio Carlo Vitti, presenterò in un simposio il cinema di R. Andò (ospite d’onore dell’ottava edizione), con un intervento sul tema Dal Manoscritto a Le confessioni: memoria e segreto nel cinema di Roberto Andò, e parteciperò a una tavola rotonda sul cinema di M.T. Giordana in relazione al nuovo libro (leggi qui): organizer and moderator Anna Paparcone (Bucknell University). Participants: Marco Olivieri (journalist), Fulvio Orsitto (University of California, Chico), Anna Paparcone (Bucknell University), and Gloria Pastorino (Farleigh Dickinson University).

Inoltre, io e Anna Paparcone – con il regista, il direttore editoriale di Rubbettino Luigi Franco e il direttore della collana di Cinema Christian Uva (Università Roma Tre) – presenteremo il nostro volume  “Marco Tullio Giordana. Una poetica civile in forma di cinema” al Salone Internazionale del Libro di Torino il 21 maggio 2017, alle 14.30, nello Spazio Incontri.

 

 Cenni biografici

Sono nato a Messina e sono giornalista professionista e Dottore di Ricerca in Storia delle dottrine politiche.

Scrittura, Cultura e Spettacoli, Cinema e Letteratura, Politica e Società, Uffici Stampa e Direzioni artistiche sono le linee principali del mio impegno.

Critico teatrale e collaboratore di Spettacoli e Cultura per “la Repubblica – edizione di Palermo” (dal 2003), sono critico cinematografico del settimanale “Centonove Press”, direttore responsabile del Web Magazine “Carteggi letterari – Critica e Dintorni” (http://www.carteggiletterari.it/) e dal 2003 svolgo costantemente attività di ufficio stampa e di direzione responsabile di testate nell’ambito della comunicazione sociale. Ho vinto il Premio “Giornalismo siciliano: l’addetto stampa dell’anno 2014” per la sezione No profit, come addetto stampa del Cesv – Centro Servizi per il Volontariato di Messina (2003-2015). Inoltre, ho curato l’Ufficio stampa per un candidato sindaco, risultato vincitore,  e per un partito politico, oltre a un’esperienza formativa all’ufficio stampa del ministero dei Lavori Pubblici.

Ho pubblicato per Olschki Editore su Jeremy Bentham e scritto per “il Venerdì di Repubblica”, “Il Giornale di Sicilia”, “I Siciliani”, “Vita”, “Diari di Cineclub”, in esclusiva per il mensile “Ciak” (aprile 2016, dal set del film “Le confessioni”), per la testata di studi interdisciplinari “Cinema e Storia” (Rubbettino, 2016), per la rivista “Eidos – Cinema Psyche Arti Visive” e per “Doppiozero”, diretto da Marco Belpoliti (gennaio 2017, leggi qui).

Sono il curatore del libro “Le confessioni”, sceneggiatura di Roberto Andò e Angelo Pasquini, fotografie di Lia Pasqualino (Skira, 2016).

Il trono vuoto e la crisi esistenziale della politica

“Gli uomini di potere hanno un duplice problema: sul piano politico, quello di esercitarlo; sul piano simbolico, quello di disfarsene” (Jean Baudrillard)

 

“Il trono vuoto” è il primo romanzo di Roberto Andò. Un regista che spazia con abilità e rigore dal cinema (“Diario senza date”, “Il manoscritto del principe”, “Sotto falso nome”, “Viaggio segreto”, “Viva la libertà” e “Le confessioni” i suoi film) al teatro e all’opera lirica. Premio Campiello e Premio Vittorini opera prima, il romanzo è stato pubblicato da Bompiani nel 2012 e segue le riflessioni esistenziali del libro “Diario senza date o della delazione” (Gea Schirò Editore, Palermo 2008). Si tratta di un viaggio narrativo profondo che intreccia con sottigliezza psicologica destini individuali e collettivi, il senso di vuoto e di sconfitta di questi anni, la paralisi della politica, la povertà delle esistenze, le inadeguatezze dei singoli e delle comunità. Nel romanzo si ritrovano il cinema, la riflessione sull’esistenza, e i temi dell’arte, la vita, la creazione del proprio destino, la forza del desiderio, il gioco ambiguo delle identità, destinato a franare miseramente, le scelte e il dolore del ricordo, tra ambiguità e rimozioni. Molti i rimandi a pensieri e suggestioni che si possono anche individuare in tutti i film di Andò, nato a Palermo nel 1959 e formatosi grazie a maestri come Leonardo Sciascia e il regista Francesco Rosi, ma con una partitura nuova, essenziale e tagliente come una lama intinta nell’introspezione. Dal romanzo, nel 2013, lo stesso regista e scrittore ha tratto un film convincente come “Viva la libertà”, valorizzando il mezzo cinematografico.

Con una copertina evocativa – una sedia bianca, vuota, su una spiaggia, davanti al mare come sfondo infinito – il libro racconta la scelta del cinquantenne Enrico Oliveri, segretario del principale partito d’opposizione, il partito della Sinistra, in caduta libera nei sondaggi alla vigilia delle elezioni politiche in Italia, di sparire improvvisamente, lasciando senza parole la moglie Anna e il suo “fedele Sancho”, come viene definito nel romanzo, il suo capo di gabinetto Andrea Bottini. Senza lasciare traccia di sé, tranne un biglietto alla moglie (“Sono stufo delle miserabili beghe del partito. Ho bisogno di qualche giorno di solitudine. …Mi farò vivo appena possibile. Ė il prezzo che prima o poi sconta l’uomo pubblico. Un bacio”), Oliveri si rifugia a Parigi dal suo primo amore, al tempo dei suoi vent’anni, quando ancora, innamorato del cinema, sognava di fare il regista: una donna molto bella e ricca di intuito, Danielle. Enrico viene ospitato da lei, nella casa che condivide con il marito, un regista amato dai cinefili, Mung, dai tratti orientali, e la loro figlia, una bambina chiamata Helène in omaggio alla figura che aveva ispirato “Jules e Jim” di François Truffaut, interpretato da un’indimenticabile Jeanne Moreau, attrice carismatica e, molti anni dopo, magnetica moglie di Lampedusa nel film “Il manoscritto del principe”.

Dopo la misteriosa scomparsa, Andrea Bottini, orfano del suo leader, diffonde un comunicato che parla genericamente di temporanei problemi di salute del segretario, che presto tornerà in campo, ma è chiaro che l’improvvisa sparizione provoca sconcerto nel partito, la cui classe dirigente non viene informata della verità, e nell’opinione pubblica, mentre la moglie Anna, silenziosa compagna di vita e di professione economista, si sente tradita da una scelta così enigmatica. Ė la stessa donna a suggerire allo sconcertato Andrea la strada per ritrovare il segretario in fuga: “Per me ci sarebbe una sola persona in grado di trovarlo. Suo fratello. Ė uscito da pochi giorni. Ora lo considerano innocuo”. Da qui parte una narrazione avvincente che vede stagliarsi la figura paradossale del doppio: il professore Giovanni Ernani, filosofo coltissimo e geniale, non amato dagli accademici perché troppo anticonformista e libero mentalmente, finito però per molti anni in un Centro di salute mentale.

Ernani è uno pseudonimo, altro elemento ricorrente nelle storie di Andò (“Sotto falso nome”): si tratta, in realtà, del fratello gemello di Enrico. Solo i capelli grigi, il viso un po’ più segnato e i vestiti démodè segnano, quasi impercettibilmente, la differenza dal segretario, oltre al linguaggio erudito e completamente alieno dalle parole vuote della politica. Così, grazie all’intuizione disperata di Bottini, e al consenso vendicativo della moglie Anna, Giovanni si trasforma in un Enrico Oliveri reduce dalla convalescenza e capace, una volta ritornato in politica, di ribaltare la contesa elettorale e riconquistare elettori e dirigenti. Malgrado tutti, avversari del suo partito e giornalisti, e perfino il presidente della Repubblica, notino, con stupore, quanto il segretario sia diverso, rispetto al passato, nel linguaggio e nel coraggio delle scelte, nessuno si accorge della verità. Tutti continuano a guardare Giovanni, convinti di trovarsi di fronte Enrico, incapaci di distinguere la “copia” dall’originale.

Giovanni ed Enrico non si parlano da trent’anni. Incrociatisi in strada, vent’anni fa, non si erano nemmeno salutati, facendo finta di non conoscersi, a causa di un’antica ferita. Ora Ernani cambia il corso delle cose, ribaltando il pronostico politico sfavorevole e recuperando notevolmente rispetto al crollo dei consensi, perché, al contrario dei politici di professione, non nasconde la morte delle illusioni e la sconfitta di questi anni. Non nasconde i limiti culturali e i cinismi di un partito che ha rinunciato a condurre una battaglia politica e morale per il cambiamento, piegandosi alla mediocrità dell’esistente, con i guru americani e l’ideologia del nulla mascherata di sondaggi e inviti alla moderazione.

Per il suo autore, il romanzo nasce dal “desiderio di ricostruzione morale e politica che si avverte, che alcuni di noi sentono necessaria, nel nostro Paese”. Il professore, un po’ pazzo e un po’ uomo libero nei sentieri inariditi della politica, conquista la gente con parole chiare e riflessioni mai scontate: “Credo sia giunto il momento di squarciare il velo dell’ipocrisia. Il consenso deve cambiare forma. Così è ripugnante, non ha sapore, non sa di nulla. Il consenso è una cosa seria, e non ha niente a che fare con le alleanze. Oggi l’unica alleanza possibile è con la coscienza della gente. Ecco, qual è oggi la vera questione della democrazia in Italia”.

Con momenti anche da commedia surreale, e affezionandosi gradualmente ai personaggi, “Il trono vuoto” vede seguire, in parallelo alla rimonta improvvisa del segretario Oliveri, grazie all’anomala figura di Giovanni, l’evoluzione di Enrico, non più personaggio politico ma persona che cerca di riflettere sulla sua vita e che vorrebbe rinascere sul piano morale, politico e culturale. Il protagonista accetta l’invito di Danielle, accompagnata dalla figlia, di trasferirsi nel sud della Francia, nella Camargue, dove lei sarà impegnata come segretaria di edizione di un film intitolato “W la libertà”.

Tra le pieghe della storia, nel racconto di una deriva antropologica che investe il mondo e la società politica, spicca il riferimento a Federico Fellini, nel dialogo tra Enrico e il regista Mung, che espone al politico alcune tracce visive che fanno da spunto a un probabile nuovo film. “Lei mi fa molta simpatia, Enrico, in quanto testimone non rassegnato del fallimento di un certo modo di fare politica che ci riguarda tutti. Il fallimento mi ha sempre interessato più di ogni altra cosa”, gli dice il cineasta. Poco prima aveva fatto vedere all’uomo politico l’immagine di Fellini, impegnato a combattere la battaglia (perdente) contro l’interruzione pubblicitaria nei film in televisione. Lo stesso Mung spiega che Fellini “è l’artista che con più forza ha cercato di impedire che ci si abituasse all’indecenza. E’ l’unico che ha capito che la questione delle interruzioni pubblicitarie nascondeva un problema politico di primaria importanza, ciò che poi si sarebbe rivelato in pieno. Quando le televisioni sono andate a spiare la sua morte, il loro vero mandato era quello di annunziare la fine di un mondo e la nascita di un nuovo ciclo. La politica di cui lei si è occupato è nata quel giorno. La politica come invenzione permanente della realtà. Come impostura”.

“Il trono vuoto” parte dal senso di smarrimento di una comunità – l’Italia come il mondo, nella Babele mediatica nella quale siamo immersi – con la Sinistra, e in particolare quella italiana, come personaggio centrale. Simbolo di un malato che preferisce accettare le regole del gioco degli altri, nell’illusione di avere una fetta di potere, piuttosto che guarire e ridare un senso alle proprie parole, al proprio progetto. Si tratta di un malato che deve smettere di apparire, o di camuffarsi, per riconquistare la dimensione dell’essere.

“Il trono vuoto” presenta un finale aperto: trascinata dal carismatico Ernani la Sinistra vince le elezioni, in un’atmosfera sospesa tra miracolo collettivo e rinascita della speranza, ma permane un soffio d’ambiguità sull’identità del segretario acclamato sul palco. Si tratta di Enrico, appena tornato a Roma, come molti elementi sembrano suggerire, e per Giovanni, invece, il futuro è ancora nel Centro di salute mentale? Perdurerà il terrore, per i gemelli, di essere uno la controfigura dell’altro? («questo è il panico speciale che ci è stato riservato»).

Così Massimo Cacciari, presidente della Giuria dei letterati del Premio Campiello 2012, si è pronunciato sull’essenza del romanzo, che trova poi la sua massima esaltazione nel film Viva la libertà, con un finale ancora più intelligentemente ambiguo ed evocativo: “Il libro di Roberto Andò, giocando con ironica leggerezza sul filo del paradosso, discute in realtà sulla contraddizione fondamentale dell’esercizio del potere. Il potere è maschera nella sua essenza; chi lo esercita rappresenta sempre qualcosa che è altro da sé, nasconde in sé sempre un estraneo. E questo estraneo appartiene alla sua natura esattamente quanto un fratello gemello. Il potere è assolutamente impotente a fuggire da tale rapporto, per quanto lo tenti. Così, alla fine, pur attraverso ogni sdoppiamento, la differenza risulta inessenziale, e occorre riconoscere, con lo stesso disincanto che è proprio della scrittura di Andò, l’identità del potere in quanto finzione”.

Marco Olivieri

Autore del libro “La memoria degli altri. Il cinema di Roberto Andò” (Edizioni Kaplan) e curatore del volume “Le confessioni” (Sceneggiatura di Roberto Andò e Angelo Pasquini, fotografie di Lia Pasqualino) per Skira (2016).

Immagine di copertina Mimmo Jodice.